KILL THE VULTURES

KTVweb
DOMENICA 7 LUGLIO
ORE 21:00 INGRESSO LIBERO
Tarcento – Centro Luciano Ceschia, via Julia 11

KILL THE VULTURES

Il percorso artistico dei Kill The Vultures inizia nel 2005 con l’album omonimo, dove in un disco di rara intensità quattro ragazzi di Minneapolis deformano e alterano jazz, blues e rap. È un ritorno alle origini nelle parole, che tornano ad avere connotati politici e sociali, che tornano a raccontare le inquietudini quotidiane, tutto fuso in un blocco sonoro magmatico e seducente, sbilenco ed incazzato, poetico e incendiario. Ritmi scarni e nervosi, poveri e quasi primordiali, fanno da sfondo a campionamenti e scorie industriali, sonorità vintage di stampo cool-jazz e soul-blues si intrecciano a linee vocali dai toni cupi e minacciosi. Artigiani del sample e parolieri urbani, i quattro Kill The Vultures hanno creato un suono di grande freschezza e notevole impatto, per un disco destinato a durare.

Con l’album seguente “The Careless Flame”, del 2007, la matrice jazz divampa e, nonostante del quartetto originale rimangano solamente Stephen Lewis (Anatomy) e Alexei Casselle (Crescent Moon), la creatività del combo di Minneapolis è paragonabile alle pagine migliori del free jazz. E non è raro che sia proprio Coltrane a venire alla mente, quando il sax si fa unico elemento riconoscibile di una melodia dilaniata, o quando si fa strada tra il fruscio dei vinili o ancora nei meravigliosi giri di contrabbasso che attraversano il lavoro. Nel 2009 con il terzo disco, “Ecce Beast”, si ha sempre più la sensazione di trovarsi in uno sconosciuto club in cui si suona jazz da ore e ore, all’infinito. “Ecce Beast” è costruito tutto sul rapping flemmatico e poetico di Crescent Moon che occupa tutti gli spazi a disposizione, trascinando la musica verso ritmi lenti e profondi. Dal canto suo, Anatomy si sbizzarrisce nella scelta dei campionamenti, spesso e volentieri tratti dal repertorio jazzistico, con fraseggi di trombe e sax in primo piano e profonde linee di basso (sia elettrico che acustico) a costruire la base ritmica in cooperazione con la battuta lenta e non sempre regolare della drum machine. Difficile trovare un’etichetta per questo duo che non gozzoviglia certo tra le scansioni del rap di maniera, ma piuttosto perlustra gli antri deserti della psiche umana rimasta orfana di gente come Albert Ayler e Gil Scott-Heron.
“Beatnik hip hop” si definiscono e forse è questa l’unica targa che gli permette di circolare liberamente ovunque.

The Old New Thing – Hybrida sound & light
Set musicale incentrato sulla black music dalla fine degli anni ’60 alla metà dei ’70, mentre la parte visuale si svilupperà attraverso foto dei musicisti dell’epoca, degli attivisti politici, delle copertine dei dischi e di filmati e spezzoni di film del periodo.