EUGENE CHADBOURNE

Venerdì 3 marzo ore 22

Uno dei grandi geni della musica d’avanguardia americana. Ha iniziato al fianco di John Zorn, suo compagno di studi musicali, e di cui ha prodotto i primi lavori e ha donato le sue idee sulla destrutturazione.
Ha lavorato a lungo con lo stesso Zorn, Tom Cora, Fred Frith, Jon Rose, Carla Bley, Half Japanese, Bill Laswell, Camper Van Beethoven, Violent Femmes, Derek Bailey, Toshinori Kondo.
E’ stato considerato dall’ amministrazione Reagan “una minaccia per lo stile di vita americano”!!!

www.eugenechadbourne.com

ingresso 5 euro

Eugene Chadbourne non è un musicista qualsiasi: è un praticante convinto e testardo dell’autogestione totale e delle formule musicali più azzardate, uno sperimentatore ed un ricercatore instancabile. Le sue canzoni sono state definite come “l’arsenale della musica contro”. La sua attività si estende, con un’approssimazione per difetto, in migliaia di concerti, centinaia di collaborazioni e una lista disumana di registrazioni su cassette, album e cd: tutti tranne un paio rigorosamente autoprodotti e venduti di persona ai concerti oppure pubblicati in giro per il mondo da etichette indipendenti ed estremiste come Fundamental, Parachute, Watt, Leo, Rastascan, Rer, Intakt, Alternative Tentacles, Incus, Fireant, Victo – tutte etichette che offrono vibrazioni ben conosciute agli appassionati di quella musica pericolosa ed esplosiva che non riesce a restare costretta nei binari del pentagramma e delle definizioni e convenzioni di genere.

Eugene Chadbourne è nato il 4 gennaio 1954 a Mount Vernon, New York. Sua madre era giunta negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni antisemite della Germania nazista. Cresciuto “in un relativo isolamento culturale” (sono parole sue) a Boulder, Colorado, inizia a suonare la chitarra a 11 anni: “Sono stato il terzo bambino della mia scuola a ricevere in regalo una chitarra dopo l’apparizione televisiva dei Beatles all’Ed Sullivan Show, e il primo ad imparare a suonarla…”. L’esempio di Jimi Hendrix lo induce ad esplorare l’applicazione del distorsore e del pedale wah-wah alla chitarra elettrica. Viene influenzato da Bob Dylan, Phil Ochs e Frank Zappa, del quale assiste a numerosissimi concerti; ad un certo punto, schifato dalla piega che stava prendendo il rock, scambia la sua chitarra elettrica con una Harmony acustica a sei corde e si applica allo studio storico del blues e alla tecnica bottleneck: “E’ stato ascoltando “Weasels ripped my flesh” che ho smesso di interessarmi ai Led Zeppelin… A me piaceva il blues, quello autentico… E ho cominciato a perdere il mio giro di amici perché a loro non andava che ascoltassi tutto il giorno quei vecchi neri…”.
La sua famiglia si trasferisce a Los Angeles. Eugene rimane “perplesso” ai primi ascolti di John Coltrane e Roland Kirk per poi venire affascinato dalla rivoluzione jazz nera degli anni Sessanta: Charles Mingus, Eric Dolphy, Pharoah Sanders, Ornette Coleman (“Mi piaceva il primo Zappa, la sua musica aveva un contenuto fortemente politico, ma la sua musica si è fatta poi più leggera… Quando ho iniziato a interessarmi di jazz moderno continuavo ad ascoltare le Mothers: mi piacevano ancora, ecco, ma preferivo Eric Dolphy perché il sassofono era più stridente e assordante…”), nonché dalla scoperta dell’improvvisatore inglese Derek Bailey. Le canzoni di Phil Ochs e la radical music lo spingono al giornalismo, ma è durante il suo esilio in Canada (a Calgary, dove espatria per sfuggire alla chiamata di leva, che allora significava Vietnam) che decide di dedicarsi completamente alla musica. Il suo rientro negli Stati Uniti coincide con l’amnistia promulgata da Jimmy Carter agli obiettori di coscienza: Eugene si stabilisce a New York City e nel 1977 entra in contatto con l’avanguardia dei musicisti neri.
Verso la fine degli anni Settanta è protagonista con John Zorn e Tom Cora di un’inedita miscela esplosiva di country and western e improvvisazione radicale: “Succedevano orrendi equivoci nella New York dei primi anni Ottanta. La gente veniva a frotte e assisteva con attenzione a qualsiasi concerto di musica improvvisata, ma se suonavi una canzone di Hank Williams si comportavano invece come se tu stessi facendo qualcosa di schifoso…”. Un giorno fonda un suo gruppo, e lo chiama Shockabilly: un mostro indefinibile, una macchina da combattimento che trasforma canzoni in deliranti incubi sonori, una sorta di risposta – sguaiata e delirante – della East Coast agli sperimentatori californiani Residents.
Instancabile viaggiatore, ha suonato praticamente ovunque in Europa (specialmente nei Paesi dell’est prima della caduta del muro), Nordamerica ed Australia. La chitarra tremendamente rumorosa, la sua pungente vena critica politica e l’estrema facilità di scrivere canzoni lo hanno reso inaspettatamente una figura di culto nell’ambito del rock: “Penso che quello che faccio oggi con la mia musica sia un po’ quello che avrebbe potuto fare Frank Zappa se avesse mantenuto la concentrazione politica che aveva negli anni ‘60 e non avesse iniziato a fare tutte quelle canzonette sulle ragazzine cattoliche eccetera…”.Come per il compagno di strada John Zorn, le sue trasgressioni di genere espressivo sono in realtà la combinazione di quanto di meglio si trovi tra rock e jazz senza alcun compromesso fusion: “Il pop non è una musica ricca di sfaccettature: la gente pretende che tu ripeta gli assoli così come sono sul disco e che tu sia uno sballato cronico. Suonare jazz per me significa impararne tutti i diversi stili espressivi ed essere in grado di suonarne bene alcuni. E’ musica che ha una storia e una tradizione, e che ha degli eroi tra i suoi esponenti: se vuoi suonarla devi esserne consapevole. Non puoi metterti lì a suonare e dimenticare tutto quello che ci sta dietro. Mi sembra invece che adesso si salti dagli anni Cinquanta ai Novanta come se non fosse accaduto niente in mezzo. I musicisti di oggi ignorano le motivazioni storiche e politiche ed il significato di questa musica…”.
I testi delle sue canzoni (definite dalla critica “newspaper songs”) sono un commento corrosivo ai fatti della politica e del costume contemporaneo, intrisi di buffoneria e volgarità ma ricchi di informazioni precise. Eugene li sussurra, li urla e/o canta -spesso imitando i toni e i tic dei grandi nomi del rock – sopra a un tessuto multistratificato di rumore: “Una volta un tizio mi ha detto: sai, saresti un chitarrista in gamba come Al Di Meola se solo smettessi di bestemmiare. Beh, io gli ho risposto che Al Di Meola sale sul palco, suona e basta, e non fa neanche un sorriso. Il mio, vedi, è un lavoro diverso…”.
Le musiche di Eugene sono mescolanze difficilmente descrivibili perché non rientrano nei canoni comuni: egli padroneggia egregiamente stili diversi come il fingerpicking, il flatpicking e il bottleneck, imita oltre la perfezione i licks dei chitarristi rock e ne stravolge orrendamente i riff, sa creare cocktail inauditi con ingredienti country e punk, metal e jazz (alternandoli ad elevata velocità, e spesso usandoli contemporaneamente): “Non voglio suonare solo canzoni politiche perché sono convinto che l’impatto sia minore. Sono convinto che la musica sperimentale sia per sua natura politica, quindi mescolo le due cose…”.
Il suo riavvicinamento al rock avviene con la nascita del punk: “Non ascoltavo più musica rock da anni e un giorno mi ritrovo a leggere un giornale con un articolo sui Dead Kennedys e i Black Flag. Il tizio aveva completamente travisato la situazione, scriveva che erano gruppi nazisti che suonavano musica nazista. La cosa mi incuriosì: è mai possibile che ci possa essere qualcuno che suoni musica nazista? A me sembrava una cosa del tutto irragionevole, quindi mi sono messo ad ascoltarla e mi sono reso conto che era invece musica anti-nazista. Le recensioni parlavano di melodie inesistenti e rumore esagerato: bene, mi sono detto, finalmente c’è qualcuno che fa qualcosa di decente…”.
Gran parte del repertorio di Eugene Chadbourne è costituito da rifacimenti di canzoni pop/rock degli anni Sessanta e Settanta, che spesso impacchetta in lunghi medley (ad esempio i Beatles, Hank Williams, Frank Zappa; in un album con i Camper Van Beethoven include una serie di reinterpretazioni di Tim Buckley). Le sue rivisitazioni a volte sono piuttosto rispettose della forma originale (ad esempio l’emozionante “Universal Soldier” di Buffy Saint-Marie), ma nella stragrande maggioranza dei casi Chadbourne sottopone le canzoni a trattamenti crudeli sino a renderle irriconoscibili (valgano per tutte l’impensabile arrangiamento country & western di “I talk to the wind” dei King Crimson e la trasposizione per banjo di “Purple Haze”).
Eugene si è mosso in lungo e in largo nel panorama musicale di questi ultimi trent’anni: ha collaborato (faccio solo qualche nome) con il rocker texano Evan Johns, con l’orchestra di Carla Bley, col gruppo bluegrass Red Clay Ramblers, con il jazzista sperimentatore nostrano Andrea Centazzo e con i sempre nostrani incendiari Zu, con gli indefinibili Half Japanese, con Ed Sanders ex-Fugs e Jimmy Carl Black -vecchio batterista di Frank Zappa -, col violinista pazzo australiano Jon Rose e col chitarrista altrettanto pazzo Henry Kaiser, con il gruppo pop They Might Be Giants e con i Violent Femmes, e registrato un numero incalcolabile di dischi, cassette e cd.
Le prime registrazioni (come i due volumi “Solo Acoustic Guitar”) risalgono al 1975: tra quegli anni ed oggi c’è in mezzo una produzione di centinaia di titoli. Molte cose sono state fatte solo su cassetta, altre solo in vinile e mai più ristampate, o non ancora ristampate.

Come giornalista ha scritto per anni su numerose testate musicali indipendenti: è lui che si celava dietro la firma del fantomatico Dr. Chad, a.k.a. Eddie Bhatterbox, e sono frutto della sua mente anarcoide tutte quelle cronache di avventure musicali impossibili, le recensioni corrosive e gli interventi furiosi su Maximum Rock’n’roll, Sound Choice, Spex, Forced Exposure, Collusion e quant’altro c’era e c’è di meglio nella stampa indipendente musicale d’oltreoceano…
Suoi anche tre bei libri, grosso modo tutti riconducibili al filone autobiografico. Nel primo “Draft dodger” Eugene rivive l’esperienza di fuoriuscito pacifista in Canada, e nel successivo “Bye bye, Ddr” riassume in un centinaio di pagine fitte la sua esperienza diretta di musicista nei Paesi dell’est prima, durante e dopo la caduta del muro di Berlino: una cronaca avvincente e curiosa ben farcita di annotazioni brillanti, dove sono sparsi volentieri spunti per sorridere, ghignare e riflettere. Il suo sarcasmo pungente e dissacrante è amplificato nell’altro suo libro “I hate the man who runs this bar”, che si propone già in copertina come una “guida di sopravvivenza per veri musicisti”. Concepito e realizzato come un vero e proprio manuale suddiviso in capitoli (del tipo lista degli organizzatori dalla a alla z, rapporti con le etichette discografiche, ecc.), il libro è stracolmo di citazioni tragicomiche, dialoghi e vignette paradossali, ammiccamenti e buoni consigli.

Marco Pandin
www.anarca-bolo.ch/stella_nera/main.htm

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