AB BAARS TRIO & KEN VANDERMARK: amsterdam meets chicago!

Martedì 16 ottobre ore 21 Palazzo Pico – Spazi OFF, Via Umberto I, 157 – Fagagna

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AB BAARS TRIO & KEN VANDERMARK

“A meeting of two fine tenor players”

Ab Baars è tra i principali esponenti del cosidetto “New Dutch Swing” ovvero la scena del jazz e della musica improvvisata olandese. Ospite del trio, per questa tourneè europea, sarà Ken Vandermark, uno dei principali catalizzatori della rinascita della scena jazzistica di Chicago. Dividendosi tra decine di progetti, Vandermark ha suonato nei contesti più diversi; oltre ad essere musicista attivissimo, il sassofonista e clarinettista americano è un vero animatore musicale.
Insieme a John Corbett ha dato vita all’Empty Bottle Festival che in pochissimi anni è diventato un punto di riferimento mondiale per la musica improvvisata.

“Negli anni Ken Vandermark ed io ci siamo incontrati parecchie volte. Brevi incontri in cui c’era, però, sempre qualcosa da dirsi. Una volta abbiamo suonato assieme a Chicago, all’Empty Bottle in un quartetto con due batteristi: Han Bennink e Hamid Drake. Siamo riusciti a ‘sopravvivere’ alle batterie e abbiamo fatto della bella musica, quella sera. Amo la sua energia, il suo modo ruvido di suonare sia il tenore che il clarinetto e le sue composizioni, brevi e dritte al punto, sono affermazioni chiare e spavalde. Il suono di due tenori mi ha sempre impressionato; il loro canto bellissimo e melodioso all’unisono… ci sono esempi grandiosi nella storia degli strumenti tenore, soprattutto da Chicago. Ho pensato che fosse ora di invitare Ken a fare un po’ di musica assieme al mio trio. Due tenori o due clarinetti e tutto ciò che sta nel mezzo più una grande ‘rhythm session’, Wilbert de Joode al basso e Martin van Duynhoven alla batteria. Sia Ken che io aggiungeremo composizioni originali al programma.
Non vedo l’ora” Ab Baars

Musica avventurosa e originale improvvisata da:
Ab Baars – sax tenore, clarinetto
Ken Vandermark – sax tenore, clarinetto
Wilbert de Joode – basso
Martin van Duynhoven – batteria
www.stichtingwig.com
www.kenvandermark.com

www.myspace.com/kenvandermark

+ COLLECTIVE WHITE
Filippo Orefice – sax tenore
Mirko Cisilino – tromba
Simone Serafini – contrabbasso
Alessandro Mansutti – batteria

ingresso 8 euro

Ab Baars
ab.jpg Ab Baars, olandese, ha iniziato lo studio del sassofono a 15 anni e tra il 1976 e il 1981 ha seguito le lezioni di Leo van Oostrom al Conservatorio di Rotterdam. Ha partecipato a workshop organizzati dal cornettista/compositore/direttore Butch Morris (1977) e nel 1978 ha fondato il gruppo Cumulus. Ha poi collaborato con Roscoe Mitchell, il settetto di Guus Janssen, il Theo Loevendie Consort, la Willem van Manen’s Springband, e l’ottetto di Maarten Altena. Nel 1989 ha studiato a Los Angeles con il clarinettista/compositore John Carter. Membro stabile dell’ICP Orchestra, Baars utilizza uno stile molto personale che Misha Mengelberg chiama ‘ab music’. Oltre che col suo trio Ab Baars suona regolarmente in duo con la violista Ig Henneman e con la sassofonista /flautista Mariotte Rouppe van der Voort.

THE SHAPES OF JAZZ
Un ritratto di Ken Vandermark, instancabile esploratore delle infinite forme in cui la contemporaneità infrange il jazz

di Enrico Bettinello (BLOW UP luglio 2006)

ken.jpg Giunto brillantemente in vista delle coste dei suo primi, splendidi, cento anni [le date certe poi, non hanno tutta questa importanza all’interno di un continuo evolversi della tradizione musicale africano-americana], il jazz mostra tutto sommato uno stato di salute più che buono, anche se deve inevitabilmente fare i conti con la codificazione di molte sue forme, anche quelle che al loro apparire avevano assunto i ruoli linguisticamente più eversivi.

Capita così che il ruolo storicamente “scomodo” che le forme del jazz nel Novecento hanno assunto di volta in volta nella loro dialettica continua – non necessariamente oppositiva, beninteso – con le trasformazioni della società americana e poi anche al di fuori dei confini continentali, abbia progressivamente trovato assestamenti e riconoscimenti di maggiore comodità, ben riassunte da quella funesta etichetta che vuole il jazz – o meglio determinate forme del jazz – assurgere a “musica classica americana del Novecento”, pronto sigillo per diversi modelli di bara, anche quelli più trasparenti.

Nelle musiche afroamericane non è possibile evitare di fare i conti con la propria tradizione e un artista oggi si trova a doversi confrontare con un vastissimo raggio di esperienze espressive, che vanno dal blues rurale alle orchestre swing, dal bop all’improvvisazione radicale, dal soul jazz al funk, per non dire ovviamente delle influenzi di materiali “esterni”, dal rock all’elettronica, dalle musiche delle tradizioni popolari di ogni geografia alle astrazioni della sperimentazione colta novecentesca.

Un compito certo non facile, che trova – volendo generalizzare schematicamente – vari metodi di soluzione: l’adesione più o meno fedele a un modello [è quella propugnata nelle varie “corsie” del mainstream, ma anche dai tanti revival e da molti nostalgici del free storico], un approccio per così dire “postmoderno” di assemblaggio di elementi lessicali differenti [siamo spesso dalle parti di Zorn e compagnia], un forte richiamo a modalità della propria tradizione [è frequente nel jazz europeo, anche in quello italiano].

Una visione di sintesi ancora più ampia, che riesca ad essere al tempo stesso stimolante e creativa, è solitamente appannaggio di artisti che al talento musicale affiancano una forte curiosità culturale, talvolta affrontando percorsi musicali anomali, comunque dotati di capacità organizzative e di sviluppare “reti” di comunicazione sempre diverse.

È questo sicuramente il caso di Ken Vandermark, sassofonista, clarinettista, compositore e leader di un vasto numero di progetti, artista che sembra quasi trovarsi come sulla cima di un altura, da cui riesce a vedere a trecentosessanta gradi tutti i dettagli dell’ambiente circostante e non può esimersi dal sintetizzarne gli elementi espressivi.

Nato nel 1964 nel Rhode Island, figlio di un appassionato di jazz – la cui firma si può spesso leggere nella rivista specializzata Cadence – Vandermark è circondato da questa musica sin da ragazzino: i dischi della collezione paterna, i concerti, l’amore per il suono pieno delle big band, la tromba come primo strumento. A quindici anni il passaggio al sax tenore e una educazione sostanzialmente autodidatta che si nutre quotidianamente dell’ascolto di tutti i più grandi del jazz: tra questi Sonny Rollins è una prima forte influenza. La curiosità di Vandermark va però oltre i confini dello stretto ambito musicale e si spinge verso altre forme artistiche, come la pittura, la fotografia, il cinema – che studia all’Università di Montreal – una passione multidisciplinare che ritroveremo in alcuni progetti e nelle immancabili dediche che accompagnano le sue composizioni.

La svolta arriva alla fine degli anni Ottanta con il trasferimento da Boston a Chicago, città che proprio da quel periodo sarà lo scenario per una serie di importanti avventure musicali creative: da sempre luogo fondamentale per il jazz e il blues, la windy city dei primi anni Novanta è infatti un luogo in cui si incrociano la continuità dell’associazionismo dei musicisti neri che hanno mantenuto in vita le idee dell’AACM, il post-rock di Tortoise e Gastr del Sol, la grande volontà relazionale dei giovani jazzisti. È la città di locali come il Velvet Lounge gestito dal veterano sassofonista Fred Anderson o l’Empty Bottle, dove proprio Vandermark, insieme al musicista e critico John Corbett, organizza concerti settimanali. È la città di etichette coraggiose e indipendenti come Atavistic e Okkadisk, ma è anche e soprattutto un luogo in cui confrontarsi e incrociare le esperienze. Lo stesso Vandermark non manca di notare come una delle caratteristiche che più l’hanno colpito di Chicago è quella della cooperazione tra gli artisti, della grande voglia di scambiare idee e di condividerle, atteggiamento non così scontato in ambiti come quelli del jazz in cui la componente individualista ha comunque una sua parte rilevante.

Il ruolo centrale di Vandermark in questa scena viene ufficialmente “sancito” nel 1999, quando la Fondazione MacArthur, che ogni anno riconosce un ricco premio in denaro ai contributi creativi più innovativi del mondo artistico [Cecil Taylor, Anthony Braxton e Ornette Coleman l’hanno ad esempio ottenuto], inserisce nella lista dei nomi vincitori anche quello del sassofonista. 265.000 dollari in cinque anni, una cifra davvero niente male, che può sistemare per un po’ la quotidianità e dare anche la possibilità di lavorare su idee nuove senza doversi necessariamente piegare alle economie ridotte che sono tipiche nel mondo della musica improvvisata.

Tracciare una mappa di tutte le esperienze in cui Vandermark è stato coinvolto in questi ultimi dieci anni – e i collegamenti interni tra queste – è impresa tutt’altro che facile e per niente lineare: la cosa migliore è forse procedere per progetti e non si può non partire dai Vandermark 5, il gruppo che per continuità e costante sviluppo può essere considerato un po’ il “cuore” del mondo espressivo del musicista. La band si trova attualmente a un punto di svolta della propria storia: se i cambi di formazione che si sono succeduti negli anni precedenti hanno sempre comunque mantenuto la strumentazione di partenza – il sassofonista Dave Rempis al posto di Mars Williams, Tim Daisy al posto di Tim Mulvenna alla batteria – la recente decisione del trombonista Jeb Bishop di lasciare il gruppo ha portato a una variazione più rilevante, con l’innesto del violoncello di Fred Lonberg-Holm.
Le caratteristiche sonore dei Vandermark 5 si sono con il tempo definite con precisione sempre maggiore: alla base un impianto piuttosto “classico”, con tre fiati, basso e batteria, nucleo che – anche senza uno strumento armonico come pianoforte o chitarra – consente comunque di lavorare sia sulla potenza espressiva dei singoli solisti che su una solida tavolozza polifonica, accresciuta a livello timbrico dalla flessibilità dello stesso Vandermark come polistrumentista, che può di volta in volta imboccare il sax tenore, quello baritono o i clarinetti.

Il sound guarda agli anni d’oro del free e non è un caso che – gli esiti sono stati pubblicati dapprima come bonus all’interno dei dischi del gruppo, poi raccolti in un pregevole doppio – siano proprio alcuni temi chiave del free, da Braxton a Coleman, da Shepp a Don Cherry, quelli con cui la band si cimenta nelle bollenti serate all’Empty Bottle.

Di disco in disco – da “Acoustic Machine” a “Airports For Light”, fino ai più recenti “The Color Of Memory” e al gigantesco box dal vivo “Alchemia” – l’aspetto della composizione viene affrontato con tecniche sempre diverse, prediligendo sempre più una forma narrativa in cui si succedono diversi momenti e integrando strategie stilistiche nuove che non permettano ai solisti la tentazione di ripetersi. Essenziale in questo processo è il riferimento a forme esterne alla tradizione del jazz: capita infatti che all’interno dello stesso disco convivano un brano dall’inequivocabile tiro funk e un altro ad alto tasso di astrattismo, che atmosfere cool si intreccino con la più disarticolata sperimentazione timbrica.

Ancora più essenziale è il lavoro che Vandermark svolge in trio, un percorso che si sviluppa parallelamente con una serie di progetti – il più delle volte differiscono solo per un elemento del gruppo – che vanno dall’improvvisazione totale dei DKV con il contrabbasso di Kent Kessler e la batteria di Hamid Drake, al Sound In Action Trio con due batterie [andatevi a recuperare il disco “Design In Time” uscito nel 1999 per la Delmark], dai Tripleplay agli Spaceways Inc., dagli FME ai Free Fall.

Di questi gruppi sicuramente gli Spaceways Inc. sono quelli che più hanno colpito il pubblico internazionale, grazie alla indomabile propulsione di Hamid Drake alla batteria e di Nate McBride al basso e a un repertorio fortemente influenzato dal funk e dalle esperienze stellari di Sun Ra e di George Clinton. Dopo il bell’omaggio a questi artisti di “Thirteen Cosmic Standards”, sono stati il sanguigno “Version Soul” e la collaborazione con i nostri ZU di “Radiale” a rendere questo trio uno dei gruppi di maggior impatto della “scuderia” Vandermark, anche se i tantissimi impegni di Drake hanno portato attualmente a una forzata quiescenza della band.

Con il trio FME e i Free Fall si evidenzia un’altra caratteristica importante del lavoro di Vandermark in questi anni, la collaborazione con musicisti scandinavi: iniziata con le frequenti collaborazioni con l’Aaly Trio di Mats Gustafsson, questa liaison con i principali jazzisti creativi norvegesi e svedesi si è andata sempre più rafforzando. Frequenti sono le collaborazioni tra gli School Days e gli Atomic, gli FME sono in pratica gli Spaceways Inc. con Paal Nilssen-Love al posto di Drake, ma la musica ne risulta totalmente differente, mentre il trio Free Fall richiama dichiaratamente nella strumentazione [clarinetto, piano, contrabbasso] il leggendario trio di Jimmy Giuffre, Paul Bley e Steve Swalllow e, come quello, si muove su un terreno più astratto e cameristico.

L’importanza della batteria nella musica di Vandermark è evidentissima: con lo straordinario Paal Nilssen-Love è attivo anche un duo [ben documentato dalla Smalltown Supersound] in cui il rapporto ritmico tra gli strumenti assume al tempo stesso il massimo grado di intimità e di sfida.

Altro legame riuscitissimo è certamente quello con Peter Brötzmann: il sassofonista tedesco sta vivendo in questi ultimi anni una vera e propria seconda giovinezza, in particolare con il suo Chicago Tentet in cui milita anche Vandermark e con il trio Sonore composto dai due insieme a Mats Gustafsson. La musica del trio Sonore è completamente improvvisata e esplora tutte le potenzialità sonore degli strumenti ad ancia nelle diverse combinazioni.

L’esperienza di un organico allargato – con tutte le difficoltà che comporta – ha trovato per Vandermark una importante continuità nella Territory Band, che rappresenta il tentativo di organizzare un ampio organico in grado di affrontare qualsiasi strategia compositiva o improvvisativa. Anche in questa formazione convivono musicisti europei e americani di varie generazioni, da un veterano come il batterista inglese Paul Lytton a uno sperimentatore della tromba come Axel Doerner, passando per l’elettronica di un Kevin Drumm, a formare una musica che si basa su una sorta di “memoria comune” che si rinnova in continuazione.

Proprio di questa memoria che non è mai celebrazione – lo testimoniano progetti come quello su Joe Harriott o le riletture di temi di Rahsaan Roland Kirk o Sonny Rollins – si nutre la musica di Vandermark, sottoponendola a un continuo esercizio creativo: così possono sorgere i borborigmi di Sonore o le coralità sfrangiate della Territory Band, i tesi duetti o la rinnovata avventura che si è aperta con i Vandermark 5. The shape of jazz to shape!

Dieci dischi per conoscere Ken Vandermark:
Ken Vandermark Solo – Furniture Music [OkkaDisk, 2003]
Paal Nilssen-Love & Ken Vandermark – Dual Pleasure 2 [Smalltown Supersound, 2004]
AALY Trio/DKV Trio – Double or Nothing [OkkaDisk, 2002]
Vandermark 5 – The Color of Memory [Atavistic, 2005]
Spaceways Inc. – Version Soul [Atavistic, 2005]
Territory Band – Map Theory [OkkaDisk, 2004]
Atomic/School Days – Nuclear Assembly Hall [OkkaDisk, 2004]
Free Fall – Amsterdam Funk [Smalltown Supersound, 2005]
Peter Brötzmann Chicago Tentet – Broken English/Short Visit to Nowhere [OkkaDisk, 2002]
Sonore – No One Ever Works Alone [OkkaDisk, 2004]

ken1.jpg L’INTERVISTA

Dopo un tour europeo e diversi mesi di lavoro assieme, come “suonano” alle tue orecchie questi “nuovi” Vandermark 5?

Con il nuovo organico sento che il gruppo può lavorare più facilmente di prima con i materiali più diversi. Il violoncello di Fred Lonberg-Holm permette di avere una sonorità particolarmente vicina a quella della musica contemporanea quando si combina con i clarinetti, oppure un tiro più spiccatamente rock e funk quando Fred utilizza gli effetti. C’è poi da dire che gli stessi livelli da cui la musica è composta possono essere più mobili e variabili a seconda che il violoncello sia parte della sezione ritmica oppure si unisca alla linea melodica.

Che tipo di strategie ha indotto questa nuova situazione nel tuo modo di scrivere e nel suono complessivo del gruppo?

Ad alcune abbiamo già accennato, c’è da dire che se nel passato la maggior parte del materiale tematico principale era scritto appositamente per il suono delle ance e del trombone di Jeb Bishop, adesso la presenza del violoncello ci consente una scelta molto diversa di caratteristiche timbriche. Può essere ad esempio uno strumento guida, oppure mescolarsi con i sassofoni o i clarinetti, così che con soli cinque musicisti, disponiamo di una tavolozza sonora molto ampia.

Chi avesse nostalgia del “vecchio” quintetto può certo consolarsi con i dodici cd del cofanetto “Alchemia”!

Penso che questo box sia il documento più completo delle strategie sonore dei Vandermark 5: l’ascoltatore può davvero ascoltare come suonavamo in quel particolare periodo e quale musica stavamo elaborando. Penso sia la cosa più vicina possibile all’essere stati lì!

Sempre più forte è la tua connessione con musicisti dell’area scandinava, come Mats Gustafsson, gli Atomic o Paal Nilssen-Love…

Non so quale strada definita possa prendere la musica che si sviluppa dalla collaborazione con questi musicisti di Oslo e Stoccolma e forse proprio questa è la ragione per cui è così eccitante lavorare insieme a loro. Di certo abbiamo in previsione molte cose per il duo di improvvisazione libera con Paal Nilssen-Love e con il trio FME. Con Mats Gustafsson ci troveremo in autunno per continuare il lavoro del trio Sonore, in cui suoniamo con Peter Brötzmann, mentre con gli Atomic proseguirà presto la collaborazione in ottetto come Atomic/School Days a Chicago, con concerti e un nuovo disco. Questo è quello che per ora abbiamo in mente, mi sembra che non sia male!

Si parla tanto del Vandermark compositore e leader, a volte meno del Vandermark strumentista. Come è cambiato il tuo approccio a sassofoni e clarinetti in questi anni?

Sto cercando di smontare le frasi, spogliarle, ridurle alla loro essenzialità il più possibile, ma mantenendo un legame con il materiale di partenza. Semplificare le linee senza renderle semplicistiche, così come ci viene dalla lezione di Thelonious Monk o di Don Cherry.
Contemporaneamente sto cercando di sviluppare modi differenti di organizzare le caratteristiche ritmiche delle mie linee, in modo da potere muovermi in molteplici direzioni in ogni momento a seconda della sensibilità ritmica del contesto in cui mi trovo.
C’è poi il continuo lavoro per ottenere un suono sempre più potente con i vari strumenti e la costruzione – davvero senza fine – di un “vocabolario” di extended techniques.

A un artista attivo su più fronti come te, non mancano mai nuovi progetti!

In aprile mi dedicherò assiduamente a riprendere le fila del progetto “Powerhouse Sound”, provando a vedere come funziona un organico con due Tortoise come John Herndon e Jeff Parker e i due bassi elettrici di Ingebrigt Håker Flaten e Nate McBride! È una musica che evidenzia le intersezioni tra i miei interessi per il lavoro di Lee “Scratch” Perry, dei Public Enemy e dell’ultimo Miles Davis elettrico!
Sarò ovviamente in tournée con i Vandermark 5, in Scandinavia con Paal Nilssen-Love e il duo di Mats Gustafsson e David Stackenas, ma ho anche intenzione di cercare di dare forma a un nuovo trio – o quartetto – che mi permetta di esplorare alcune idee strutturali che non posso applicare in altre formazioni.
Ci sono poi le registrazioni con gli Atomic/School Days di cui dicevamo prima, un tour europeo con il trio Free Fall, il Peter Brötzmann Chicago Tentet, una registrazione in Portogallo con un quartetto in cui oltre a me e a Nilssen-Love, ci saranno Adam Lane e Magnus Broo, per girare infine gli States in trio con Paul Lytton e Philip Wachsmann… e con questo siamo solo a metà anno!

Il trio Free Fall ha dei riferimenti molto precisi alla musica dello storico trio di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow. È una delle poche situazioni – mi viene in mente anche il trio Sonore – in cui suoni senza batteria.

Generalmente le situazioni che mi piacciono di più sono quelle in cui sono coinvolti dei batteristi. Ritengo della massima importanza la relazione musicale tra me e i percussionisti in qualsiasi band io stia suonando, dal momento che la maggior parte delle mie idee vengono sviluppate a partire dal fattore ritmico e su questo sono costruite. Detto questo, sia con i Free Fall che con i Sonore sono libero di esplorare aspetti degli strumenti ad ancia che possono essere messi in secondo piano quando si lavora con la batteria, sia per una questione di volume, di livelli di densità o caratteristiche timbriche. Se nella lunga storia del repertorio classico occidentale pianoforte, clarinetto e archi hanno avuto un determinato ruolo, una ragione ci deve essere e questa combinazione ha una qualità sonora di grande bellezza e equilibrio.
Con i Sonore c’è poi la libertà di esplorare la natura degli strumenti ad ancia senza la necessità di replicare una combinazione strumentale più convenzionale: questo libera le qualità percussive che si possono ottenere dai sassofoni e dai clarinetti, che solitamente vengono invece espletate dalla batteria.

Ricordo che una volta parlammo dei dischi dell’isola deserta! Nell’epoca dell’I-Pod il giochetto suona improvvisamente anacronistico, dal momento che risulta ora più semplice portare centinaia di dischi nell’isola deserta che non una maglietta! Cosa troviamo oggi nel tuo I-Pod?

È curioso che tu mi faccia questa domanda, dal momento che ho passato l’ultimo paio di pomeriggi a caricare cose nuove nell’I-Pod da ascoltare nell’imminente tour in Scandinavia con Mats Gustafsson, Paal Nilssen-Love e David Stackenas. Ecco alcune cose che ho appena caricato! John Cage “Music Of Changes” [hatART], Karlheinz Stockhausen “Klavierstucke” [hatART], Helmut Lachenamnn “Kontrakadenz” [Kairos], Big Joe Williams “The Stars Of Mississippi Blues” [JSP], Mississippi Fred McDowell “This Ain’t No Rock N’ Roll” [Arhoolie], Hound Dog Taylor “And The House Rockers” [Alligator], la raccolta “Tropicalia” [Soul Jazz], King Tubby “In Fine Style” [Trojan], “Soul Of Angola” [Lusafrica], Abelardo Barroso “No Hay Como Mi Son” [Caney], Iggy & The Stooges “Raw Power Remixed” [Columbia], Jorge Ben “Africa Brasil” [Universal], Art Ensemble Of Chicago “Nice Guys” [ECM], Miles Davis “The Cellar Door Sessions 1970” [Columbia]. E sono solo alcuni!
La maggior parte delle persone che conosco e con cui lavoro ascoltano una varietà incredibile di musica, non solo uno o due generi. Questo sicuramente rende più difficile per i critici identificare le influenze nella musica degli improvvisatori di oggi, dal momento che le fonti delle loro idee davvero possono arrivare da qualunque parte. Mi sembra che l’I-Pod abbia compresso questo processo, così che invece di andare di disco in disco, di cd in cd, si va di brano in brano. Potenzialmente questo potrebbe significare un peggioramento nelle attitudini d’ascolto delle persone, ma il modo in cui le generazioni più giovani affrontano le informazioni e la comunicazione sono molto diverse da un tempo e, sinceramente, questo processo va avanti da ben prima che comparisse l’I-Pod!

Il tuo sito web è ricchissimo e contiene anche una sorta di diario di viaggio in cui appunti le tue esperienze e riflessioni. Quanto è importante per te annodare questo tipo di connessioni con il tuo pubblico e, allo stesso tempo, il riflettere su quello che si sta facendo?

Sono contento che il sito ti piaccia! L’archivio di riflessioni è dovuto in parte al fatto che mi sono sentito sempre più frustrato da molti giornalisti che si occupano di musica improvvisata. Così, invece che lamentarmi del livello della critica jazz, ho pensato fosse più interessante presentare delle prospettive articolate da parte di un musicista, siano esse le mie o quelle di qualcun altro. In questo modo gli ascoltatori possono conoscere il punto di vista dell’artista su quello che sta facendo ed è comunque un punto di vista alternativo a quello che possono leggere su quel lavoro. Ho principalmente inserito un diario delle mie tournée nella sezione “Notes From The Field”, mentre per gli ascoltatori che fossero interessati a maggiori approfondimenti sulla musica, ho avviato una newsletter periodica chiamata “Audio One”, cui ci si può iscrivere dal sito e che oltre a interviste, contiene altri articoli.

Che idea si è fatto Ken Vandermark di dove sta andando la musica?

Credo che la musica in genere stia entrando in una fase molto interessante e eccitante, un periodo in cui sarà sempre più difficile utilizzare le categorie che abbiamo sempre usato per descrivere quello che sta succedendo. Dal momento che certi stili e scuole stanno diventando sempre più dogmatici, sacrificando il loro raggio espressivo alla causa del suonare “correttamente”, ci sono molti artisti che stanno elaborando delle strategie per sfuggire a questi limiti arbitrari, sia che questo avvenga con l’improvvisazione più radicale, sia che preveda l’incorporazione di elementi predeterminati. sono molto ansioso di vedere le direzioni che la musica prenderà e spero proprio di essere parte di questi sviluppi!

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